A cena colla Kitty
(segue)
La carrozzella accosta al marciapiede di fronte all'entrata dell'hotel e si ferma.
Salto giù, accompagnato dal bouquet di margherite che tengo nella mano sinistra, e lancio un'occhiata al vetturale.
"Gino?"
"Oh?"
"Un voglio che resti a reggere i' moccolo." Guardo il mio Rolex Daytona. "Son cinque minuti alle sette. Passi a ripigliarmi tra un'oretta."
"Indo? Qui?"
Punto il braccio destro oltre le spalle del vecchio, sul caffé che sta in un canto di Piazza della Repubblica, lato Via Pellicceria.
"No, laggiù."
Gino volge indietro il capo e aguzza la vista socchiudendo le palpebre.
"Alle Giubbe Rosse?"
"Sì."
Il fiaccheraio torna a girarsi verso di me e si stiracchia i muscoli della schiena.
"Intesi. All'otto verrò a raccattarti in quella mescita di lusso." Gino agita una mano e mi saluta a gran voce. "Bona, Pennac di noialtri!"
"Bona, Automedonte!", gli rispondo sogghignante.
Anche Piripicchio mi saluta, alla guisa però dei suoi augusti genitori: scaricando sul selciato dinanzi al Savoy cinque stronzi fumanti.
Il portiere dell'hotel, un biondo in tight grigio e tuba nera, fissa a occhi sgranati la merda equina che ha osato lordare il suo regno.
"Mein beliebter Freund", gli domando. "La vita non è una cosa meravigliosa?"
"Ne dubito, Mein lieber Herr", mi risponde lui sconsolato.
Gl'allungo venti euro di mancia.
"Turati i' naso, vecchio bandito, e pigliala come pende. Domani è sempre un altro giorno."
Il biondo apre il portone del Savoy e, con un mezzo inchino, m'invita a entrare.
"Vedrò di riuscirci, Mein Herr."
"Wunderbar."
Gli do un buffetto sulle gote e transito nella hall. Vo alla reception. Vi sono due addetti: una fanciulla bruna molto procace e uno spilungone biondastro coll'aria di chi tende parecchio a tirarsela.
"Salut, le copain", dico a quest'ultimo sfoderando la mia più inossidabile nonchalance.
"Salut, monsieur."
"Sono atteso dalla signorina F., camera centosette. Potrebbe annunciarmi?"
"Il suo nome?"
"Personne."
"Eh?"
"Personne, Nessuno."
"Ha voglia di scherzare ...monsieur?"
"Pas du tout, le copain. Ho solamente fretta." Gli passo una banconota da cinquanta euro. "Acceleri la procedura s'il vous plait."
Lo spilungone afferra il telefono e compone il numero della tua stanza. Tu però latiti.
"Spiacente, mademoiselle non risponde."
Sbuffo.
"E' uscita?"
Il watussi controlla la rastrelliera delle chiavi incastonata nel banco del concierge.
"Non risulta, monsieur. Provi a cercarla al bar o nella sala lobby. E' probabile sia scesa dabbasso."
"Merci mille fois, mon brave."
Lo spilungone accenna un sorriso divertito.
"Il n'ya pas de quoi."
Mi metto a ispezionare il pianterreno dell'hotel ma non ti scorgo da nessuna parte. Sto per salirmene in camera tua quando ti vedo uscire dall'ascensore. Indossi un provocante abito da cocktail griffato Ferragamo. E' nero come la pochette Dior che stringi tra le mani. Hai le gambe nude e sei arrampicata su un paio di décolleté tacco d'acciaio intonate al colore del vestito e della borsetta. Hai gl'occhi scolpiti da un'ombra di mascara e i lunghi capelli castani sciolti sulle spalle. Non porti gioielli. Solo un esile braccialetto d'argento.
Un angelo del profondo degl'abissi, ecco quello che sei. Traggo un sospiro.
Attraversi la hall, a passi lenti e misurati, dritta nella mia direzione. Il watussi della reception ti fissa ammirato.
Siamo l'uno dirimpetto all'altra, a distanza di Golem. Il tuo sguardo s'inchioda al mio.
"Sei in ritardo, Ratto."
Il tono della tua voce ha un che di gelido. Ohi. La Venere Ambigua è adirata. Meglio disinnescare la bomba prima che esploda.
"Nessuno è perfetto."
"Bella frase. A chi l'hai rubata?"
"A Osgood Fielding Terzo. Non son sicuro però. Ho quarant'anni, Kitty. La mia memoria falla."
Sorridi.
"Steel, sei il solito matto."
Arriccio il naso.
"M'arrangio." Ti porgo il bouquet di margherite. "Un omaggio alla Venere Ambigua. Nota la sfumatura di giallo."
I tuoi occhi s'illuminano.
"Grazie."
Mi passo una mano tra i capelli.
"Prego."
Guardo il Daytona. Sono le sette e un quarto.
"Kitty, è l'ora dell'aperitivo." Ti prendo una mano. "Andiamo a bagnarci il becco nel più rinomato caffé di Firenze."
Mi fissi.
"Parli come un libro stampato."
Alzo le spalle.
"Lo so. E' una malattia questa che colpisce chi sta troppo incollato al Cartone."
Ti scappa una risata.
"Si può guarire?"
"Bisognerebbe chiederlo a Ciccio, il mio consulente informatico. Io di computer e affini non c'ho mai capito un accidenti. Anzi, per dirla tutta, mi capita spesso d'aver nostalgia dei tempi che furono, quando il non plus ultra dell'automazione consisteva nell'uso della carta carbone e delle macchine da scrivere."