BlaBlaBla
_La Venere Ambigua_
Si torna all'antico. Per l'ultima volta...
Avviso all'utenza
Lo Steelrat è morto. Così decise il Signor Capo. Forse detta birba tornerà ad imbrattare queste pagine. O forse no. Quello che so con certezza è che d'ora in avanti il Serraglio del Ratto sarà della Kitty. Glielo lascio come retaggio ringraziandola dal profondo del cuore per avermi ispirato i post e i racconti più belli.
Si chiude un ciclo. Ne inizia uno nuovo. Non qui ma in un altro luogo. Chi volesse sapere dove cerchi tra i miei ex link. L'eremo lo troverà di sicuro.
Dimenticavo... Le Signorie Loro son tutte invitate ai funerali e all'inumazione dello Steelrat che avran luogo con grandissimo apparato di mezzi in un blog all'uopo predisposto (http://www.lamortedelratto.splinder.com/). Oh, il teschio che gira è proprio una forza!
Un inchino al mio gentile pubblico e a tutti gl'internauti che avran la ventura di passare da queste parti.
Mmm... Ciccio, che te ne pare? Il notice è venuto su bene?
Io sono il Drago.
Non Isabella Santacroce.
Quindi...
Niente revolver.
Pistola semiautomatica.
Beretta 92 FS.
Avrai potere, Kitty.
Un potere devastante.
Quindici cartucce.
Calibro 9 mm Parabellum.
Per decidere della morte o della vita del Ratto.
E sparerai.
Sparerai.
L'Inno dei Corridori del Fuoco non è mio.
L'ho rubato a uno dei miei autori preferiti.
Lo canterò.
Lo.canterò.per.te.
L'acciao!
E' meglio della carne.
L'acciaio!
E' meglio dello scheletro.
L'acciaio!
E' meglio dell'anima.
L'acciaio!
Non sente dolore.
L'acciaio!
Non conosce paura.
L'acciaio!
Non prova rimorso.
L'acciaio!
Non ha pietà.
L'acciaio!
Non si spezza nella colpa.
L'acciaio!
Non langue nel sogno.
L'acciaio!
Non trema nell'incubo.
L'acciaio!
E' esso stesso un incubo.
L'acciaio!
Ci guida nel fuoco.
Hai abbandonato l'abisso.
Sei rinvenuta.
Il collo dolorante.
Il corpo lordo di sangue.
Il mio.
Non il tuo.
Posi una mano sul pube.
E' bagnato.
Altro liquido.
Il mio seme.
Alzi lo sguardo.
Mi vedi.
Sto in piedi di fronte a te.
Ho un brutto taglio al fianco sinistro.
Un taglio ancora sanguinante.
"Kitty?"
Silenzio.
"Kitty?"
Silenzio.
Sorrido.
"La Venere Ambigua è una divinità molto esigente."
Mi fissi accigliata.
"Perché?"
"Richiede sempre un duplice tributo di sangue."
Nessuno
Giaci sul letto nuda. Voli sulle ali del nulla grazie agli effetti della solita pillola. Hai gli occhi chiusi ma vedi Dio camminare sul soffitto della tua cameretta.
Allunghi le braccia. Ti stiracchi. Sei leggera. Le bruttezze della vita sono un ricordo evanescente perso nel profondo dell'abisso.
Sorridi. Dal respiro di Dio cade polvere bianca. Il rimedio contro l'infelicità del mondo.
Cerchi di agguantarne un granello. Non vi riesci. Tenti di nuovo. Invano. Qualcosa te lo impedisce. Mugoli disperata.
Un dolore acutissimo e violento. Vuoi sfuggirgli. Non puoi. Il suo morso è implacabile.
Apri gli occhi. Hai la vista appannata. Scorgi una sagoma d'uomo che incombe su di te.
"Chi sei?", chiedi a quell'ombra vaga e minacciosa.
Uno schiaffo cattivo ti colpisce in pieno viso.
"Nessuno."
Una voce distante. Forse la conosci.
"Ratto?"
Un altro schiaffo cattivo. Sulla bocca.
"Il Ratto non esiste. E' cartone."
Stringi le palpebre. Aguzzi gli occhi. Mi vedi chiaramente adesso. Ti sto sopra, a cavalcioni sul bacino, nudo e furente.
"Drago?"
Ancora un ceffone cattivo. Sempre sulla bocca.
"Il Drago non tornerà più. E' acciaio."
Mi tempesti di pugni. Gridi.
"Che cazzo ti è preso, Ratto?"
Ti serro i polsi e li inchiodo al letto spalmandomi su di te.
"Ho un nome." Accosto le mie labbra alle tue. "Due sillabe di merda." Non ti bacio. Mi limito a respirarti addosso. "Qual'è, Ilaria? Dimmelo!"
Ti libero i polsi.
"David."
Mi scosto da te e tiro un sospiro.
"Brava bambina."
Mi dai un manrovescio.
"Stronzo."
Ti carezzo il faccino.
"Ho voglia della Venere Ambigua. Dov'è che la nascondi?"
Cerchi la mia bocca. La trovi. Mi mordi un labbro.
"Fottiti, Ratto!"
Mi spalmo di nuovo su di te. Ho un'erezione. Ne avverti il turgore contro il ventre.
"Kitty..."
Mi graffi i fianchi e la schiena.
"Fottiti!"
Mi insinuo tra le tue cosce e ti penetro a forza.
"Skizzo..."
Mi copri le braccia di morsi.
"Drago..."
Ti afferro per il collo. Stringo. Mi prendi a pugni. La mia stretta però non si allenta.
Sei in preda al panico. Ti manca l'aria. Riesci a girare di poco la testa. Scorgi il Golem. E' posato sul materasso a qualche millimetro dalla tua mano destra. Lo afferri e tenti un colpo alla cieca. Non sai esattamente quante volte. Hai chiuso gli occhi e sei precipitata nel nulla.
Una musa risoluta e una giovane donna dalle unghie affilate.
Un cocktail terribilmente sexy.
Hyvä, Ilaria...
Tornerò prigionero dei soliti schemi.
Quanto resta di "A cena colla Kitty" sarà pubblicato altrove.
Abbiamo un eremo, tu e io.
E' ora che si cominci a razzolarlo.
Ah...
Ho un nome.
David.
Mi aspetto che tu lo usi.
In questa vita o nell'altra.
Mortteli.
Schemi...
Trame precostituite...
Fanculo!
Ilaria...
L'ultima puntata di "A cena colla Kitty" scrivila tu se vuoi.
E che le tue parole possano graffiarmi fin nel profondo.
http://www.ristorantelaloggia.it/index.php?Mode=pages&ID=1&cp=0&Home
Questa doveva essere la location.
Tu però sei libera di cenare dove ti pare.
Bacio.
Il teschietto per ricordare che il Serraglio del Ratto è il solito cartone animato.
A cena colla Kitty
(segue)
Poso il menù e schiocco le dita. Il cameriere, un omino smilzo e brizzolato, s'avvicina al tavolo cui siamo seduti.
"I signori hanno deciso?", domanda a entrambi con tono professionale.
"Sì", gli rispondo. "Io piglio un Garibaldi; la mia gentile accompagnatrice un Chinò San Pellegrino."
Mi fissi assottigliando le palpebre.
"Il Chinò bevilo tu, Ratto. A me quell'amarume colle bollicine non piace."
Sogghigno.
"Non vale la pena scaldarsi, passerotta. T'ordino qualcos'altro, ok?"
Mi dai un pizzico al dorso d'una mano.
"Passerotta... Io quel nomignolo lo detesto. Evita di chiamarmi così."
Ti strizzo un occhio.
"D'accordo, ciccina. Ogni tuo desiderio è un ordine."
Arricci il naso e mi mostri la lingua.
"Lo sai dove dovrei mandarti?"
Sogghigno ancora una volta.
"Certo, affanculo."
Il cameriere ci guarda. Non sa se ridere o conservare il suo aplomb.
Sfoglio nuovamente il menù. Indi punto lo sguardo sullo smilzo.
"Si cambia veleno, capo: io prendo un Kir Imperial; la signorina uno Shirley Temple."
Mi tiri un calcio in uno stinco. Il dolore è lancinante. Colpa della punta delle décolleté da mistress. Maledico il giorno in cui te le ho regalate.
"Steel, smettila di trattarmi come una bambinetta astemia. Io l'alcool lo reggo tanto quanto te se non di più."
Altro sogghigno da parte mia.
"Questo è tutto da dimostrare, Skizzo."
Accosti alla bocca il pollice della mano destra e ne mordicchi la pelle sopra l'unghia laccata di nero. Poi lo allontani dai denti e lo trascini sul labbro inferiore con un dolce movimento sinuoso. Mi fissi intensamente negl'occhi.
"Ilaria, io..."
Inghiotto saliva. Sono a corto di parole.
Un colpo di tosse. E' il cameriere.
"Chiedo scusa, signori, ma non ho capito cosa dovrei servire."
Gli lancio un'occhiata distratta.
"Due aperelli del Ratto."
Lo smilzo aggrotta la fronte.
"Che?"
"Due aperelli del Ratto. E' sordo per caso?"
Il cameriere mi guarda colla fronte sempre più aggrottata.
"No, però quei cosi che vuole, gl'aperelli, non credo siano contemplati nel menù."
Sbuffo.
"Certo che no, capo. Quella specie d'ambrosia l'ho inventata io. La ricetta è molto semplice: vodka e uno spruzzo di limone."
"Solamente quest'ingredienti?"
"Sì. Non penso che il barman trovi difficoltà a prepararcene una dose robusta."
Lo smilzo accenna un sorriso.
"Quanto robusta?"
"Per due shottini da cosacco."
"Con o senza ghiaccio?"
"Senza."
Il cameriere fa per andarsene. Io lo blocco collo sguardo.
"Capo?"
"Sì?"
"Nessun distillato di dubbia fama. Solo Vodka Standart Platinum. Intesi?"
Lo smilzo accenna un altro sorriso e scuote la testa.
"Intesi."
Il cameriere leva le tende e scompare nel caffé. Io mi metto a guardare i tavoli all'aperto confinanti col nostro. Sono occupati dai soliti pottoni e da un fitto manipolo di turisti accaldati.
"David?"
Ti lancio un'occhiata. Hai accavallato le gambe e la gonna dell'abito da cocktail s'è scostata parecchio all'insù.
"Oh?"
"Un penny per i tuoi pensieri."
Traggo un sospiro.
"Kierkegaard e Shopenhauer."
Sbatti le palpebre.
"Eh?"
"Kierkegaard e Shopenhauer. Due emeriti coglioni. Non credi, Kitty?"
Mi fissi sorridente.
"Boh?"
Un alito di vento ti scompiglia i capelli. Sei adorabile.
"Ne scrissero di fregnacce. Come Nietzsche."
Mi mostri ancora la lingua.
"Rattaccio hegeliano."
"Ti sbagli, Skizzo. Io sono un fan di Leibniz."
"Non eri epicureo tu?"
"Sì, ma ho cambiato idea."
"Perché?"
"Hai presente le monadi?" Annuisci col capo. "Ecco, la parte peggiore di me ha sviluppato un'insana passione per quegl'aggeggini lì. Che vergogna, eh?"
Scoppi in una fragorosa risata.
"Sei una sagoma, Steel."
Allargo le braccia.
"Cuique suum."
"Che locuzione forbita. Dove sei andato a pescarla?"
"Su Wikiquote, e dove se no?"
Ricompare lo smilzo. Preleva dal vassoio le ordinazioni e le posa sul tavolo. Indi mi guarda.
"Et voilà, signore: due aperelli del Ratto freddi e non ghiacciati."
"La vodka è quella che ho specificato?", gli domando.
"Certamente", mi risponde. "Standart Platinum."
"Hyva!" Punto lo sguardo su di te e inizio a canticchiare. "Libiamo ne' lieti calici, che la bellezza infiora; e la fuggevol ora s'inebrii a voluttà. Libiam ne' dolci fremiti che suscita l'amore, poiché quell'occhio al core onnipotente va. Libiamo, amore, amor fra i calici più caldi baci avrà."
Scavalli le gambe e mi tiri un calcio negli stinchi. Il secondo della serie.
"Finiscila. Tu mai e poi mai sarai il mio Alfredo."
Rido. Allungo una mano e t'accarezzo il faccino.
"Sono straziato." Piglio il bicchiere di vodka che ho davanti. "Berrò per dimenticare il dolore." Scolo l'aperello tutto d'un fiato, com'usavo sotto le armi durante le cene di calotta. Tu vorresti imitarmi. La Standart è troppo forte però. T'occorrono un paio di minuti per trangugiare il diabolico shottino.
"Tutto bene, Kitty?"
Hai ancora lo stomaco in subbuglio a causa della vodka.
"Sì."
"L'aperello bis ce lo concediamo?"
"No, meglio di no."
"Ok."
Mi rivolgo al cameriere.
"Capo?"
"Dica, signore."
"Due Becks."
"Classic o Next?"
"Classic."
Lo smilzo scompare di nuovo all'interno del caffé. Tu frughi nella tua pochette.
"Ilaria?"
"Eh?"
"Mica vorrai metterti a fumare?"
"Sì, perché?"
"E' una cosa quella che mi da assai fastidio."
"Siamo all'aperto, Ratto."
"Lo so, ma se potessi astenerti dall'inquinare l'ambiente, mi renderesti molto felice."
Sbuffi.
"Sei una palla."
"Però ti voglio un bene dell'anima."
Mi fissi.
"Smettila di fare il cascamorto, Steel. Non attacca."
Ti mando un bacio sulla punta delle dita.
"Obbedisco, tesorino!"
Mi fulmini cogl'occhi.
"David, se non la finisci con questi nomignoli insulsi, ti prendo a graffi e morsi."
Mi scappa un risolino.
"Adoro certe raffinatezze."
Torna il cameriere. Porta quanto richiesto: le birre e i relativi bicchieri.
"Capo", gli chiedo. "Il conto quant'è?"
Lo smilzo mi porge uno scontrino.
"Trenta euro tondi."
Gl'elargisco una banconota da cento cocuzze.
"Il resto è la mancia per lei e il barman."
Il volto del cameriere s'illumina.
"Grazie, signore."
Lo guardo.
"Capo?"
"Sì?"
"Niente bicchieri. Si beve a canna."
"Come desidera."
Lo smilzo stappa le Becks, sgombera il tavolo dai bicchieri e s'allontana. Io piglio la mia birra e inizio a centellinarla lentamente. Anche tu bevi a piccoli sorsi. Le tue labbra avviluppate intorno al collo della bottiglietta verde sono uno spettacolo davvero ammirevole.
"Ratto", mi domandi dopo qualche istante di silenzio. "Il nome di questo caffé, le Giubbe Rosse, da dove viene?"
Poso la Becks. Tu fai altrettanto.
"Da oltre oceano. Devi sapere infatti che il locale fu fondato alla fine dell'Ottocento da due burberi colonnelli in pensione delle guardie canadesi a cavallo. Di qui il nome, le Giubbe Rosse, che s'è conservato fino ai giorni nostri."
"E' la verità?"
Rido.
"Certo, Kitty. Sono un onesto sorcetto di campagna. Io le bugie non le dico mai."
Mi lanci uno sguardo fra lo scettico e il divertito.
"Sarà."
Un fragor di zoccoli. Piripicchio e Gino sono arrivati.
"Ilaria, ma petite, regarde là-bas." T'indico la carrozzella ferma davanti al caffé. "Ecco il mezzo che ho scelto per il trasporto della Venere Ambigua. Un cocchio magnifico, trainato da uno stallone con un rispettabilissimo pedigree."
Mi tiri un calcio negli stinchi. Il terzo della serie.
"Lazzarone..."
Non ti lascio parlare. Mi alzo dalla sedia e ti trascino via come un fiume in piena.
"Let's go, Skizzo. E' giunto il momento di salire su al Piazzale Michelangiolo dove s'eleva la Loggia, il ristorante colla vista panoramica più bella del mondo."
"Aspetta!", gridi in preda a una grande agitazione.
Mi blocco.
"Icche c'è?"
Punti il pollice dietro di te.
"Il bouquet di margherite che m'hai regalato è rimasto lì sul tavolo. Sii gentile, Steel: vammelo a prendere. E' un ricordo tenero e prezioso. Non voglio separarmene."
Accosto le mie labbra alle tue e ti bacio sulla bocca.
"Agl'ordini, Kitty!"
Mi pizzichi un braccio.
"Scemo."
Scuoto la testa.
"Bischero, non scemo. Son di Firenze dopotutto."
A cena colla Kitty
(segue)
La carrozzella accosta al marciapiede di fronte all'entrata dell'hotel e si ferma.
Salto giù, accompagnato dal bouquet di margherite che tengo nella mano sinistra, e lancio un'occhiata al vetturale.
"Gino?"
"Oh?"
"Un voglio che resti a reggere i' moccolo." Guardo il mio Rolex Daytona. "Son cinque minuti alle sette. Passi a ripigliarmi tra un'oretta."
"Indo? Qui?"
Punto il braccio destro oltre le spalle del vecchio, sul caffé che sta in un canto di Piazza della Repubblica, lato Via Pellicceria.
"No, laggiù."
Gino volge indietro il capo e aguzza la vista socchiudendo le palpebre.
"Alle Giubbe Rosse?"
"Sì."
Il fiaccheraio torna a girarsi verso di me e si stiracchia i muscoli della schiena.
"Intesi. All'otto verrò a raccattarti in quella mescita di lusso." Gino agita una mano e mi saluta a gran voce. "Bona, Pennac di noialtri!"
"Bona, Automedonte!", gli rispondo sogghignante.
Anche Piripicchio mi saluta, alla guisa però dei suoi augusti genitori: scaricando sul selciato dinanzi al Savoy cinque stronzi fumanti.
Il portiere dell'hotel, un biondo in tight grigio e tuba nera, fissa a occhi sgranati la merda equina che ha osato lordare il suo regno.
"Mein beliebter Freund", gli domando. "La vita non è una cosa meravigliosa?"
"Ne dubito, Mein lieber Herr", mi risponde lui sconsolato.
Gl'allungo venti euro di mancia.
"Turati i' naso, vecchio bandito, e pigliala come pende. Domani è sempre un altro giorno."
Il biondo apre il portone del Savoy e, con un mezzo inchino, m'invita a entrare.
"Vedrò di riuscirci, Mein Herr."
"Wunderbar."
Gli do un buffetto sulle gote e transito nella hall. Vo alla reception. Vi sono due addetti: una fanciulla bruna molto procace e uno spilungone biondastro coll'aria di chi tende parecchio a tirarsela.
"Salut, le copain", dico a quest'ultimo sfoderando la mia più inossidabile nonchalance.
"Salut, monsieur."
"Sono atteso dalla signorina F., camera centosette. Potrebbe annunciarmi?"
"Il suo nome?"
"Personne."
"Eh?"
"Personne, Nessuno."
"Ha voglia di scherzare ...monsieur?"
"Pas du tout, le copain. Ho solamente fretta." Gli passo una banconota da cinquanta euro. "Acceleri la procedura s'il vous plait."
Lo spilungone afferra il telefono e compone il numero della tua stanza. Tu però latiti.
"Spiacente, mademoiselle non risponde."
Sbuffo.
"E' uscita?"
Il watussi controlla la rastrelliera delle chiavi incastonata nel banco del concierge.
"Non risulta, monsieur. Provi a cercarla al bar o nella sala lobby. E' probabile sia scesa dabbasso."
"Merci mille fois, mon brave."
Lo spilungone accenna un sorriso divertito.
"Il n'ya pas de quoi."
Mi metto a ispezionare il pianterreno dell'hotel ma non ti scorgo da nessuna parte. Sto per salirmene in camera tua quando ti vedo uscire dall'ascensore. Indossi un provocante abito da cocktail griffato Ferragamo. E' nero come la pochette Dior che stringi tra le mani. Hai le gambe nude e sei arrampicata su un paio di décolleté tacco d'acciaio intonate al colore del vestito e della borsetta. Hai gl'occhi scolpiti da un'ombra di mascara e i lunghi capelli castani sciolti sulle spalle. Non porti gioielli. Solo un esile braccialetto d'argento.
Un angelo del profondo degl'abissi, ecco quello che sei. Traggo un sospiro.
Attraversi la hall, a passi lenti e misurati, dritta nella mia direzione. Il watussi della reception ti fissa ammirato.
Siamo l'uno dirimpetto all'altra, a distanza di Golem. Il tuo sguardo s'inchioda al mio.
"Sei in ritardo, Ratto."
Il tono della tua voce ha un che di gelido. Ohi. La Venere Ambigua è adirata. Meglio disinnescare la bomba prima che esploda.
"Nessuno è perfetto."
"Bella frase. A chi l'hai rubata?"
"A Osgood Fielding Terzo. Non son sicuro però. Ho quarant'anni, Kitty. La mia memoria falla."
Sorridi.
"Steel, sei il solito matto."
Arriccio il naso.
"M'arrangio." Ti porgo il bouquet di margherite. "Un omaggio alla Venere Ambigua. Nota la sfumatura di giallo."
I tuoi occhi s'illuminano.
"Grazie."
Mi passo una mano tra i capelli.
"Prego."
Guardo il Daytona. Sono le sette e un quarto.
"Kitty, è l'ora dell'aperitivo." Ti prendo una mano. "Andiamo a bagnarci il becco nel più rinomato caffé di Firenze."
Mi fissi.
"Parli come un libro stampato."
Alzo le spalle.
"Lo so. E' una malattia questa che colpisce chi sta troppo incollato al Cartone."
Ti scappa una risata.
"Si può guarire?"
"Bisognerebbe chiederlo a Ciccio, il mio consulente informatico. Io di computer e affini non c'ho mai capito un accidenti. Anzi, per dirla tutta, mi capita spesso d'aver nostalgia dei tempi che furono, quando il non plus ultra dell'automazione consisteva nell'uso della carta carbone e delle macchine da scrivere."
A cena colla Kitty
(segue)
Serro il nodo della cravatta, un bavaglio blu notte targato Ermenegildo Zegna.
"Non ci siamo, Calvanelli."
Il fioraio delle dive mi fissa storto.
"Come sarebbe a dire?"
"Sarebbe a dire che questo bouquet di margherite fa veramente onco."
"Onco?"
"Sì, onco."
Calvanelli inzia a grattarsi un orecchio. Tipico tic da botanico.
"O perché?"
"Non ha la giusta tonalità di giallo."
Il fioraio delle dive trae un profondo sospiro.
"Giovanotto, dica un pò: secondo lei, quale sarebbe la sfumatura più adatta?"
Gl'indico colla punta d'un dito lo splendido mazzo di girasoli che si trova adagiato in uno dei vasi esposti in vetrina.
"Quella."
Calvanelli inforca gl'occhiali.
"Ma è quasi arancione!"
"Appunto. Proprio il tono di colore che garba alla Skizzo."
Il fioraio delle dive trae un altro profondo sospiro.
"Lei mi chiede la luna, giovanotto. Delle margherite gialle così scure non penso d'avercele."
Prendo il portafogli e gl'elargisco due banconote da cinquanta euro.
"La prego, Calvanelli: non mi lasci nella merda. Queste benedette margherite cerchi di rimediarle in qualche modo. Ne servono solo diciotto, tante quanti sono gl'anni della mia Kitty."
Il fioraio delle dive fa sparire la mancia in una delle tasche del suo grembiule.
"Giovanotto, abbia un attimo di pazienza. Mi dia il tempo di rovistare tra i set di fiori che ho in laboratorio. Forse posso aiutarla."
Calvanelli gira sui tacchi e scompare nel retrobottega portandosi appresso il bouquet scartato. Io resto immobile dinanzi al banco, perso nei miei pensieri.
Delle risa femminili attirano la mia attenzione. Volto la testa. Guardo fuori, oltre la porta a vetri del negozio. Noto due bellezze statunitensi, fumate o bevute, che stanno vagando senza una meta apparente lungo Via della Vigna Nuova. Sono avvolte in dei vestiti estivi molto corti e calzano entrambe delle orribili infradito nere. Una però ha un culo che lo rizzerebbe a un morto.
"Giovanotto!"
Torno a girare lo sguardo verso il banco. Il fioraio delle dive è ricomparso con un altro bouquet di margherite gialle stretto tra le mani. Me lo porge accennando un mezzo sorriso.
"Le va bene la tonalità? E' sull'arancione, vede?"
Scruto il mazzo di fiori.
"Sì, quella è appunto la sfumatura di giallo che volevo." Metto mano al portafogli. "Quanto le devo, Calvanelli?"
Il fioraio delle dive si toglie gl'occhiali e ne pulisce le lenti con un fazzoletto immacolato.
"Nulla, offre la casa."
Gli sorrido a trentatrè denti.
"Grazie allora!"
Esco dal negozio e, a passo di carica, volo in Piazza Goldoni dov'è posteggiato Gino.
"O Pantego", sbraita il vecchio appena salgo sulla carrozzella. "C'hai messo un secolo per raccattar du margherite. E son fiori di campo, mica orchidee."
M'accomodo sul sedile del passeggero con estrema cautela. Voglio sempre salvaguardare la riga dei pantaloni.
"O stia bono, Gino. E unn'è aria. Avii Piripicchio piuttosto. Siamo in ritardo sulla tabella di marcia."
Il fiaccheraio si volta nella mia direzione e, coll'indice destro, inizia a pulirsi il naso.
"E ora indo si dovrebbe andare?"
Lo fisso dritto negli occhi.
"In Piazza della Repubblica, all'Hotel Savoy."
"Da que quattro bischeri?"
Mi trattengo a stento dal ridere.
"Sì, proprio da loro."
A cena colla Kitty
Il fiaccheraio mi guarda.
"Gino", gli domando. "Si combina sì o no?"
"Un lo so", mi risponde lui.
Sbuffo. Prendo il portafogli dalla tasca interna della giacca e gl'allungo quattro banconote da cinquecento euro.
"Bastano duemila cocuzze?"
Il vecchio fissa il denaro, poi me.
"Si resta in centro?"
Alzo gl'occhi al cielo. Sono sullo scazzato con brio.
"Porca manetta, Gino, ma quante volte glielo devo ripetere? A una cert'ora ci deve portare su al Piazzale Michelangiolo."
Il fiaccheraio si mette a pensare. Io mi guardo intorno. Piazza della Signoria è gremita dalla solita folla di turisti internazionali. Americani e tedeschi per lo più.
"Gino?"
"Oh?"
"S'è deciso?"
"No."
Metto di nuovo mano al portafogli. Il vecchio mi fissa pieno d'interesse. Io gli passo altre due banconote da cinquecento euro.
"Ultima offerta, Gino: tremila cocuzze e una bella mancia a fine serata. Crede di poterci stare?"
Il fiaccheraio intasca il denaro con una manovra degna d'un consumato prestidigitatore.
"Sì."
"E bravo il nostro vetturale!"
Gino monta a cassetta. Io dietro, sul sedile del passeggero.
"O topo stilografico", mi fa il vecchio. "Adesso indo si va?"
"In Via della Vigna Nuova", gli rispondo. "Da i' Calvanelli."
"Da chi?"
"I' Calvanelli, il fioraio delle dive."
Gino si volta verso di me e scuote il capo.
"Se lo dici te..."
"Sì, lo dico io. Sbrighiamoci però. Son già le cinque e mezzo e s'è perso fin troppo tempo."
Il fiaccheraio torna a darmi le spalle e lancia un fischio. Il cavallo, un Oldemburghese sauro, nitrisce e inizia a tirare la carrozzella in direzione dell'imbocco di Via Vacchereccia.
Ho gl'occhi della gente puntati addosso. Assumo un'espressione flemmatica e accavallo le gambe badando a non rovinare la piega dei calzoni del mio sciccosissimo abito color coloniale griffato Armani.
"Gino", fo distrattamente al mio chauffeur. "Una domanda posso porgliela?"
"Certo."
"I' su cavallo come si chiama?"
"Piripicchio."
Inarco un sopracciglio.
"Un sarà mica i' figliolo d'Uragano e Apocalisse?"
"Sì, perché?"
Mi scappa da ridere.
"Nulla, semplice curiosità da ratto."
Si torna ancora una volta all'antico...
Una comunicazione di servizio
Ho lasciato Cesso Nero laddove l'ho trovato: nella merda.
Famose n'antra cantatina, va...
Wir werden weitermarschieren
wenn Scheisse vom Himmel fällt.
Wir wollen zurück nach Schlickstadt,
denn Deutschland ist der Arsch der Welt!
Und der Führer kann nicht mehr!
In cucina
Quando le gatte scrivevano per i ratti...
Lei, con le sue mani delicate, intride burro e farina.
Ha gesti morbidi e lenti, a convincere due elementi ad unirsi e mescolarsi, fino a farsi uno, uno solo, indiscernibili uno dall'altro.
Il briciolame tenero sembra opporsi, ribelle rotola tra le dita che ancora lo stropicciano con dolcezza, in un rimprovero silenzioso e divertito.
Lui beve vodka ghiacciata. Appoggiato al frigorifero, la guarda e sorride.
Lei versa acqua sul mucchio indomito, a poco a poco, senza premura e con i palmi pazienti compone una forma, che recalcitrante si salda e poi, arresa, si modella tra le sue mani sicure.
Lui ammira la sua abilità a rendere forma la materia.
"Quasi inimmaginabile", pensa sorseggiando il bicchiere appannato.
Adesso lei raccoglie nel cavo delle mani la massa docile, che si plasma seguendo i movimenti che comprimono e rilasciano e si riempiono e respingono, giocando a modellare un'idea informe.
Lui posa il bicchiere.
Un nodo di fiamme gli scende in gola, gli scalda il cuore che batte forte, mentre la fissa.
Non sa cosa vorrebbe, non lo sa ancora.
Lei accovaccia le dita intorno al pane di pasta, lo accarezza ormai domo da tanta energia, lo accudisce un attimo in un tepore d'affetto risoluto.
Lui la guarda, infastidito, geloso di quel momento così vicino e così distante da lui, in cui la donna vive un mondo che gli è precluso.
"Che fai?", dice a voce troppo alta.
Lei non alza subito gli occhi.
Sorride, conscia del tono di quella domanda, decisa a rendere malleabile anche l'uomo con la sua volontà quieta.
Solleva le ciglia, un pò di sbieco.
"Lo faccio lievitare", risponde.
"E hai bisogno di covarlo?", chiede ironico.
Lei socchiude le labbra in una specie di sorriso, lo guarda dritto in faccia.
"Voglio che venga come voglio io, senza fretta, mentre lo liscio e lo sfioro adagio, sentendolo crescere e vivere e quasi esplodere."
Lui la guarda serio.
Il fuoco gli avvampa dentro, nello stomaco, e scende giù, stemperandosi in brividi che lo invadono tutto.
E lungo la schiena risale alla nuca, annidandosi dietro gli occhi, dove qualcosa vacilla.
Ha le labbra secche, ma non vuole muoversi.
Lei rotea i polpastrelli sulla pelle soffice della pasta, sembra seguire il ritmo del respiro e intanto scruta l'uomo.
Con lo sguardo lo percorre dalla testa al ventre, e sotto la cintura, dove qualcosa sta crescendo, incontenibile.
Non stacca gli occhi di lì, inumidendo le labbra con la lungua che sporge appena tra i denti.
Lui sente il sangue ribollire e tutto il suo essere crescere e dilatarsi e tendere verso di lei.
Fa un passo senz'accorgersene, e un altro, e ormai le è così vicino da percepirne il calore.
"Fammi quel che vuoi", le dice.
Lei posa le mani sul suo viso e lui sente il profumo buono di promesse che verranno mantenute.
Lei preme la bocca su quella dell'uomo, che sa di vodka.
Accoglie quella lingua che la penetra prepotente, accetta di farsi coppa umida per colmarsi di lui, mentre con la punta delle dita rincorre il contorno delle orecchie, si tuffa tra i capelli a saziare i suoi pensieri.
Con un gesto insofferente lui spazza il tavolo da ogni cosa, da quel pane che s'è arreso, rubando un suo sorriso.
Lei lo respinge coi palmi morbidi, ridendo, e lui le è di nuovo addosso, rovesciandola sul piano infarinato.
Le allarga le gambe con la forza delle sue.
Lei lo obbliga a sollevarsi e gli sbottona la camicia.
Lui alza le braccia in una resa incondizionata, lei la sfila e la getta a terra.
Impaziente lui tira la sua maglietta a scoprirle il seno e questa volta è lei a distendere le braccia, perché lui possa lanciarla lontano.
Le strappa la gonna leggera, sente il rumore del tessuro che cede e vola da qualche parte. Le serra i fianchi e scopre che non ha nient'altro da togliere.
Allora si abbatte su di lei in un gemito soffocato, con un braccio le cinge la vita e con l'altra mano si slaccia la cintura.
Lei gli accarezza la schiena, gli massaggia la pelle in un disegno di lingua circolare, a lato del collo e sulla spalla.
Poi lo sente entrare imperioso.
Allora protende la testa indietro e ad occhi chiusi comincia quel lavorio che lo renderà arrendevole.
Lo comprime dentro di sé, come volesse divorarlo.
Lo rilascia e ancora lo avvolge e di nuovo stringe ogni fibra intorno al desiderio di lui che si sta affrettando.
E poi lo lascia fare, perché è il tempo che più le piace, quando lei è soltanto conca che si riempie.
E con lui si fonde e mescola.
Lui e lei... due elementi che si uniscono e si mescolano, fino a farsi uno, uno solo, indiscernibili uno dall'altro.
Another message in the bottle
Oh, questo c'ha pure il sonoro.
http://www.youtube.com/watch?v=uCIzFHZHdFs&mode=related&search=
Bru Bru nun te reggae più.
Quelle che se la tirano mi fan sempre quest'effetto.
Mmm...
Sto sprecando parole per un affaruccio di Cartone che conta meno di zero.
Meglio dar fiato all'ugola e cantare una bella canzoncina "prussiana".
Jawhol!
Ich bin ein freier Wildbrettschütz
und hab' ein weit' Revier,
so weit die braune Heide reicht,
gehört das Jagen mir...
Ich bin ein freier Wildbrettscütz...
Du palle
La noia uccise uno dei miei centomila "io".
Quello più accademico e sfaccendato.
Due furon le cause.
Un server dispettoso e un operatore telefonico in rapporti problematici cogl'amici della Telecom.
Voi non potete immaginare quanto soffra per la perdita suddetta.
Mi scuso per la pessima qualità della foto.
La webcam, come apparecchio fotografico, lascia molto a desiderare.
Al pari di certe chat.
IlRattoSemprePiùMatto
Ah...
Le palle vi son state gentilmente offerte dall'Ikea.
Non poteva essere altrimenti.
Visti i miei agganci coll'Ultima Thule.
Porc...
Mi scappa un'altra foto.
Ho ancora voglia di mare.
Uff...
Mieleeeeeeeee
Affogami
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Affogami
Affogami
Affogami